18 settembre 2004

Immagine

Ho scelto una panchina,
solitaria espressione di me senza te.
Ho scelto una panchina e foglie di autunno,
perché mai avevo apprezzato il cambiamento,
il vinaccia e il marrone.
Perché prima di conoscere te
nel mio cuore era inverno.

Prima di conoscere una delle persone che più avrebbe contribuito a rendere meravigliosamente bella la mia vita, avevo formulato un ‘idea di questa abbastanza chiara perché, a mio avviso, ne ero esperta. E non perché fossi al mondo da tanto, ma per quanto in poco tempo il mondo mi avesse mostrato.
Molte volte avrei preferito saperne di meno, perché chi non conosce ha il privilegio di immaginare un finale diverso per le cose; ha il grande potere di usare la fantasia, l’ingegno che deriva dalla stessa inesperienza.
Prima di conoscere una delle persone che più avrebbe contribuito a rendere meravigliosamente bella la mia vita, credevo che il mondo si evolvesse in spirali sul solo asse della mia esistenza. Credevo che il mio animo fosse l’unico gravoso di pesi, incuria e instabilità.
Paradossalmente mi credevo forte perché imparavo ogni giorno a resistere a me stessa, in un più precario e dannoso equilibrio. Ero lì, appesa al filo della quotidianità priva di rete di sicurezza, troppo in bilico per permettermi la vera felicità, troppo in equilibrio per assaporare la vera tristezza e l’oblio.

Dopo aver conosciuto una delle persone che più avrebbe contribuito a rendere meravigliosamente bella la mia vita, ho avuto la certezza che anche se fossi caduta nel baratro più profondo e lurido la sua mano mi avrebbe cercata, la sua mente compresa e la sua anima raccolta.

Il giorno in cui l’ho conosciuta lo ricordo ancora: a pensarci rido di me stessa, di lei, di quello che eravamo e che ora siamo alla luce di una consapevolezza tutta nuova.
Era una mattina di settembre, una strana e calda mattina di settembre, di quelle che preannunciano un inverno che arriverà tardi.
Entrambe ci affacciavamo ad un mondo del tutto nuovo, entrambe non eravamo pronte a farlo, ancorate al passato, alle sicurezze e alle paure con cui avevamo imparato a convivere e, magistralmente, ad evitare.
Cosa saremmo diventate mi era del tutto ignoto perché non credevo potesse esistere un legame come quello che ci unisce.
Conoscevo il suo nome. Lei il mio. Nulla di più. Eppure c’era una forza che non potevo ignorare, una voce che sussurrava che ci saremmo appartenute, piacevolmente vincolate l’una all’altra, vivendo l’una nell’altra.

Una sera di poche sere fa siamo in auto, sotto casa, e parliamo, approfittando di ogni istante insieme, perché noi potremmo raccontarci ovunque, quando gli impegni e la distanza ce lo consentono:

“… quindi vorresti che fosse l’uomo della tua vita?”, le domando.
“Sì, lo vorrei.”, risponde.
“Sai, stavo pensando proprio ora ad una cosa…”
“Quale?”
“Pensavo…hai detto bene: uomo della mia vita.”
“Perché?”
“Perché la persona della mia vita è un’altra. Sei tu.”